Manuali

Diritto fallimentare

Quando si parla di fallimento, viene spontaneo pensare ad una punizione.

L’insolvenza è qualcosa da reprimere e il fallimento è l’istituto giuridico con il quale si introducono un insieme di sanzioni da infliggere al debitore inadempiente.

Il sistema di norme che punisce l’inadempimento delle obbligazioni è nato nelle civiltà mediterranee dalle quali derivano le nostre radici culturali.

Sia nell’antica Grecia che in epoca romana il debitore godeva dello status libertatis: se insolvente, tale status poteva essere sacrificato in nome degli interessi patrimoniali del creditore. E all’origine, il debitore poteva essere costretto a pagare con sanzioni crudeli che andavano ben oltre i suoi beni: arresto, schiavitù, morte. In tal senso, la legge romana Pœtelia Papiria introdusse per la prima volta il principio di esecuzione sui beni, adattando l’esecuzione personale a seconda che l’insolvenza fosse dovuta a fatti accidentali o in virtù di uno specifico disegno fraudolento.

In ogni caso gli atti che il creditore poteva compiere sul debitore dovevano avvenire pubblicamente, affinché all’insolvente si accompagnasse l’infamia.

Lo sviluppo delle transazioni commerciali, l’introduzione dei mezzi di pagamento, dall’epoca dei Comuni (XII e XIII secolo) in poi, stimolarono la nascita di nuovi istituti giuridici che garantissero maggiormente il creditore di fronte all’inadempimento del debitore. In questo periodo nasce la parola “fallimentum” che stava ad indicare in generale l’insolvenza e i “falliti” o “fallentes” erano coloro che venivano meno ai loro obblighi commerciali.

Il termine è derivato dal verbo latino “fállere” (ingannare, indurre in errore, sbagliare).

Successivamente l’attività del “mercator” assunse grande rilievo e sorsero le Corporazioni di commercianti. Ogni Corporazione aveva uno statuto recante le regole, aventi forza di legge per gli iscritti, che tutelava gli interessi dei creditori e dei falliti. Così veniva sanzionato il mercante inadempiente che con la sua condotta aveva recato danno al creditore e leso l’immagine della Corporazione di appartenenza.

A Firenze, coloro che facevano bancarotta erano condotti sotto la Loggia del Mercato Nuovo, fatti sedere su una lastra in segno di scherno e di umiliazione. Al mercante fallito veniva poi rotto il banco affinché non esercitasse più l’attività commerciale: da qui il termine bancarotta.

Inoltre l’ordinamento corporativo introdusse la regola della punizione dei fuggitivi, ovvero coloro che in prossimità della scadenza dell’obbligazione, fuggivano alle sanzioni cui avrebbero dovuto sottostare.

Pertanto, l’autotutela dell’ordinamento si manifestava nel punire pubblicamente il commerciante che violare le regole del sistema economico, dimostrando di reagire con severità.

Per secoli resistette siffatta impostazione. Solo con l’avvento dell’era della codificazione, successiva alla rivoluzione francese, si ebbe una prima composizione organica del diritto fallimentare.

Nel 1807, in Francia, venne elaborato il Codice di commercio, regolante i molteplici negozi giuridici derivanti dai rapporti commerciali.

La caratteristica che contraddistinse questo codice rispetto al passato fu la netta distinzione tra l’insolvenza civile (inadempimento di un contratto di natura civile) e fallimento commerciale (inadempimento di un negozio di natura commerciale).

In Italia o Regno d’Italia, la prima codificazione si ebbe con il Codice di commercio del 1865 e poi seguita dal Codice di commercio del 1882, sulla falsariga della codificazione francese.

La legge del 1942 (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267) ha confermato che si preferiva chiudere anziché proseguire l’impresa in dissesto.

La considerazione che si aveva dell’imprenditore divenuto insolvente era quella che si aveva per una pianta da estirpare; si cercò dunque di approntare un sistema che consentisse al creditore di ottenere ristoro, piuttosto che aiutasse l’imprenditore a risollevarsi.

E nell’intento di salvaguardare i diritti del creditore del fallito, il legislatore del 1942 cercò di fare in modo che i tempi necessari non fossero nocumento per il creditore stesso.

Inevitabilmente si compressero notevolmente i diritti dell’imprenditore insolvente.

Solo negli anni settanta, con la crisi energetica che fece aumentare notevolmente il costo delle materie prime necessarie alla produzione, con conseguenti situazioni di dissesto per molte imprese, ci si rese conto di quanto fosse inadeguata la disciplina del 1942 a risolvere le crisi che colpiscono le imprese.

Negli anni successivi si studiarono nuovi strumenti atti a fronteggiare le crisi delle imprese, senza sfociare però in un lavoro organico. L’Italia non fu l’unica ad affrontare il problema, ma anche Francia, Germania e Spagna riscrissero il diritto concorsuale con importanti innovazioni.

Si pose in particolare l’attenzione sulla grande impresa, prima con la c.d. legge Prodi (Legge 3 aprile 1979, n. 95), dal ministro dell’industria dell’epoca, Romano Prodi, e poi con il Decreto Legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (c.d. legge Prodi-bis), evolvendosi ancora con il Decreto Legge 23 dicembre 2003, n. 347 (emanato nel solco del dissesto Parmalat) e con il Decreto Legge 28 agosto 2008, n. 134 (emanato nel solco della cristi Alitalia).

Per le imprese medio-piccole, invece, rimane la vecchia impostazione del 1942, almeno sino 2005, quando iniziò un processo di riforma con il quale si cercò di far coesistere l’interesse dei creditori con la conservazione dell’azienda.

Il nuovo assetto vede i creditori quali protagonisti nell’individuazione di una soluzione alla cristi, lasciando loro il compito di valutare la convenienza della prosecuzione o meno dell’impresa in crisi.

Così, nel fallimento i creditori partecipano alla procedura grazie al rinforzato comitato dei creditori, mentre nelle altre procedure concorsuali partecipano direttamente alla decisione che dà vita all’accordo. Il giudice diviene quindi il sorvegliante della regolarità della procedura.

Di seguito si può leggere la Relazione Ministeriale Illustrativa della Riforma delle Procedure Concorsuali, utile a comprendere la ratio della riforma del 2005 e dalla quale si evince che il Legislatore ha voluto ispirarsi ad “una nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa, nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore, secondo la ristretta concezione del legislatore del ’42, ma confluiscono interessi economici e sociali più ampi, che privilegiano il ricorso alla via del risanamento e del superamento della crisi aziendale”.

Dopo la riforma o le riforme, le statistiche ci dicono che il ricorso alle procedure alternative al fallimento sono di gran lunga inferiori rispetto alle attese del legislatore riformatore, ma altresì che i fallimenti stessi sono pochi. Quest’ultimo dato però potrebbe dipendere dalla riformulazione dell’articolo 1 L.F. che prevede delle soglie più alte, escludendo dal fallimento imprenditori che prima della riforma vi sarebbero stati sottoposti.

Oggi possiamo dire che l’attuale ordinamento delle procedure concorsuali mira a rendere compatibile il soddisfacimento dei creditori con l’esigenza di salvaguardare il complesso aziendale

Allo stesso criterio si ispira il Regolamento CE n. 1346/2000 del 29 maggio 2000 che, al fine di raggiungere l’obiettivo del buon andamento del mercato interno, detta norme volte a coordinare i provvedimenti da adottare in merito al patrimonio del debitore insolvente per evitare che vengano trasferiti beni da un paese ad un altro per ottenere una migliore situazione giuridica.

Così, ai sensi di questo Regolamento è possibile aprire una procedura principale d’insolvenza nello stato membro nel quale è situato il centro di interessi del debitore ed una procedura secondaria nello Stato membro in cui il debitore ha una dipendenza. Vengono quindi dettate norme che disciplinano i rapporti dei curatori e in tema di par condicio creditorum.

Infine è intervenuto il Decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122, che ha inserito l’art. 182quater in materia di prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, nuovi commi nell’art. 182bis e l’art.217bis.

Il legislatore aveva dunque voluto agevolare il ricorso al concordato preventivo e agli altri strumenti di risanamento dell’impresa , introdotti con il Decreto Legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, ma che erano stati accolti con diffidenza per il timore che i pagamenti di cui all’articolo 217bis L.F. potessero integrare la fattispecie della bancarotta preferenziale o di quella di cui all’articolo 217 L.F. (bancarotta semplice).

Da ciò si deduce che la ratio dell’attuale normativa è quella di tenere in vita l’impresa in crisi per non alterare l’equilibrio del mercato degli scambi e dei rapporti economici.

Il presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento



1. Chi è assoggettabile al fallimento

2. La nozione di imprenditore

3. L’inizio dell’attività d’impresa ai fini della dichiarazione di fallimento

4. Il fallimento dopo la cessazione dell’impresa

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